La notte, Cesare Pavese

Non resta,
di quel tempo di là dai ricordi, che un vago
ricordare.

C. Pavese

Ma la notte ventosa, la limpida notte
che il ricordo sfiorava soltanto, è remota,
è un ricordo. Perdura una calma stupita
fatta anch’essa di foglie e di nulla. Non resta,
di quel tempo di là dai ricordi, che un vago
ricordare.
                 Talvolta ritorna nel giorno
nell’immobile luce del giorno d’estate,
quel remoto stupore.
                                     Per la vuota finestra
il bambino guardava la notte sui colli
freschi e neri, e stupiva di trovarli ammassati:
vaga e limpida immobilità. Fra le foglie
che stormivano al buio, apparivano i colli
dove tutte le cose del giorno, le coste
e le piante e le vigne, eran nitide e morte
e la vita era un’altra, di vento, di cielo,
e di foglie e di nulla.
                                    Talvolta ritorna
nell’immobile calma del giorno il ricordo
di quel vivere assorto, nella luce stupita.

Cesare Pavese, La notte, In “Lavorare stanca”, Einaudi, 1968

Foto: Noell Oszvald


Gli antichi Greci conoscevano bene l’importanza dell’oblio – la capacità di dimentica, o sfumare i ricordi – importanti tanto quanto la memoria. La capacità dell’oblio era infattti affidato, dai greci e dai romani al fiume Lete, fiume nel quale le anime dei defunti dovevano immergersi per poter tornare a nuova vita.

Oblio e memoria si intersecano, infatti, in modo strano – e spesso ambivalente – nel territorio dei ricordi: frammenti di vita, esperienze impresse nella memoria e a volte nel corpo, che pur nella loro precaria fragilità si sedimentano in noi, definendo in parte i contorni di quel mistero che chiamiamo “io”, “vissuto”, “esistenza” e che da forma all’esserci.

Eppure i nostri ricordi, per quanto antichi, rinascono in noi ad ogni evocazione, con noi crescono, riemergono, ritornano e in qualche modo mutano. Mai uguali a se stessi, per quanto felici o dolorosi, vivono con noi. Pavese, in questa poesia descrive – rinnovando antichi ricordi – di una vaga e limpida immobilità che sembravano assumere i colli, freschi e neri, colti dallo sguardo bambino in una notte senza tempo, vivificati e ritrovati nell’immobile calma del giorno, quando le notti della nostra vita sembrano ormai lontane equasi assopite.

Quale grido, Giuseppe Ungaretti

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Luna allusiva, vai turbando incauta
nel bel sonno, la terra

G. Ungaretti

Nelle sere d’estate,
spargendoti sorpresa,
lenta luna, fantasma quotidiano
del triste, estremo sole,
quale grido ridesti?
Luna allusiva, vai turbando incauta
nel bel sonno, la terra,
che all’assente s’è volta con delirio
sotto la tua carezza malinconica,
e piange, essendo madre,
che di lui e di sé non resti un giorno
neanche un mantello labile di luna.

Giuseppe Ungaretti, Quale grido in Vita d’un Uomo Mondadori, Meridiani, 2009

Foto: John William Draper, primo scatto della Luna (1840)


Per i curiosi, l’immagine scelta rappresenta il primo scatto della Luna, realizzato da John William Draper nel marzo 1940, quando fotografare non significava certo premere un tastino “tanto poi ci pensa Photoshop”. Quando fotografare richiedeva tempo, dedizione, scelte ben precise, tentativi infiniti, senza avere nemmeno la certezza del risultato, e probabilmente non avendo nemmeno troppo chiara l’idea di cosa volesse dire fotografare (idea ben più chiara allora, che non oggi). Per la precisione, si tratta di un dagherottipo in cui è ritratto per la prima volta il più sfuggente e difficile soggetto di sempre: la Luna. Ho visto poche e rare foto davvero suggestive di questo satellite, che è lì sopra di noi apparentemente fisso, con le sue stravaganti fasi, capace di influenzare la Terra e i suoi abitanti, di ispirare storie vere o fantasiose, con le sue rotondità e “smorfie”, mai uguale a se stessa ed impenetrabile.

E voi che esperienza avete con questa dama capricciosa?

Buona Epifania a tutti! 🙂

I fiumi, Giuseppe Ungaretti

Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita

Questi sono
I miei fiumi

G. Ungaretti

Mi tengo a quest’albero mutilato
Abbandonato in questa dolina
Che ha il languore
Di un circo
Prima o dopo lo spettacolo
E guardo
Il passaggio quieto
Delle nuvole sulla luna

Stamani mi sono disteso
In un’urna d’acqua
E come una reliquia
Ho riposato

L’Isonzo scorrendo
Mi levigava
Come un suo sasso
Ho tirato su
Le mie quattro ossa
E me ne sono andato
Come un acrobata
Sull’acqua

Mi sono accoccolato
Vicino ai miei panni
Sudici di guerra
E come un beduino
Mi sono chinato a ricevere
Il sole

Questo è l’Isonzo
E qui meglio
Mi sono riconosciuto
Una docile fibra
Dell’universo

Il mio supplizio
È quando
Non mi credo
In armonia

Ma quelle occulte
Mani
Che m’intridono
Mi regalano
La rara
Felicità

Ho ripassato
Le epoche
Della mia vita

Questi sono
I miei fiumi

Questo è il Serchio
Al quale hanno attinto
Duemil’anni forse
Di gente mia campagnola
E mio padre e mia madre.

Questo è il Nilo
Che mi ha visto
Nascere e crescere
E ardere d’inconsapevolezza
Nelle distese pianure

Questa è la Senna
E in quel suo torbido
Mi sono rimescolato
E mi sono conosciuto

Questi sono i miei fiumi
Contati nell’Isonzo

Questa è la mia nostalgia
Che in ognuno
Mi traspare
Ora ch’è notte
Che la mia vita mi pare
Una corolla
Di tenebre.

Cotici, il 16 agosto 1916

G. Ungaretti, da “L’allegria”, Meridiani Mondadori

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Un atto di purificazione e insieme di rinascita, è questo specchiarsi e immergersi nelle acque dei quattro fiumi di Ungaretti, richiamando e attraversando così facendo le quattro fasi della sua vita, fino ad arrivare alla presente e prepotente guerra. Potente la penna tra questi versi: un uomo al cospetto di sè, una docile fibra dell’universo vicina e così distante dall’armonia di ciò che lo circonda. Potente per l’incantesimo che crea, questo poeta così profondamente umano, nel legare fino alla radice, l’uomo al mistero che lo attraversa. Tanto si potrebbe dire di questi versi, tanto è stato detto, ma vano sarebbe ogni tentativo di voler cogliere il non detto che dice, che solo nell’intimità personalissima ciascun lettore può cogliere. Dedico questi versi a chi, come mi è stato detto, passa tra queste pagine per ridestarsi dal duro lavoro e ricongiugersi al suo essere uomo.

100 di questi anni, caro Tonino…

toninoguerra

 

Adesso sto sempre in casa
e sposto carte o guardo
oltre i vetri della finestra
le mandorle secche attaccate ai rami
che arrivano fino quassù
e sembrano pendagli alle orecchie
di gente che non c’è più.
O sto seduto su una sedia
vicino al camino
e si fa notte presto
con la luce che cade dietro le montagne
e io vado a letto con la voglia di sognare
i giorni che nevicava a Mosca,
e io ero innamorato.

Si fa notte presto, Tonino Guerra

 

TONINO GUERRA, poeta, scrittore e sceneggiatore di fama internazionale, è nato il 16 marzo 1920 a Santarcangelo di Romagna, dove è scomparso il 21 marzo 2012.

Vissuto per trent’anni a Roma, con lunghe soste in Russia, divenuta sua seconda patria, alla fine degli anni ’80 si è trasferito a Pennabilli, antica città malatestiana del Montefeltro, dove era solito trascorrere lunghi periodi estivi, e nella quale è sepolto.

Figlio di genitori contadini (alla madre analfabeta insegnerà a scrivere), durante la seconda guerra mondiale viene deportato in Germania e rinchiuso in un campo d’internamento dove inizia a comporre i primi versi in lingua romagnola. Nell’immediato dopoguerra pubblica la sua prima raccolta di poesie in dialetto, I scarabócc. A questa ne seguono altre, fra le quali I Bu (1972), pietra miliare nella sua opera letteraria. Come prosatore esordisce nel 1952 con il racconto La storia di Fortunato, edito nella collana Einaudi I Gettoni diretta da Elio Vittorini. Pubblica cinquanta libri fra racconti e poesie, vincendo numerosi premi: il Pirandello, il Pasolini, il Gozzano, il Nonino, il Carducci e il Comisso.

Dai primi anni ’50 si è dedicato alla sceneggiatura e ha scritto per i più grandi registi dell’epoca, compresi Vittorio De Sica, Michelangelo Antonioni, Federico Fellini, i fratelli Taviani, Elio Petri, Mario Monicelli, Francesco Rosi, Theo Anghelopulos e Andrej Tarkovskij. Oltre 120 i film da lui sceneggiati, da L’Avventura di Antonioni ad Amarcord di Fellini, vincitore del Premio Oscar. Nella sua lunga carriera ha collezionato quattro David di Donatello, tre nomination all’Oscar, l’Oscar Europeo del Cinema come Miglior Sceneggiatore e una Palma d’Oro a Cannes.

Artista multidisciplinare, alla stregua dei grandi umanisti del Quattrocento, ha espresso i temi della sua poesia nelle più diverse forme artistiche, come si evince dalla collezione delle sue opere in esposizione al museo permanente Nel mondo di Tonino Guerra a Santarcangelo di Romagna.

Biografia e tante altre poesie su http://museotoninoguerra.com/it/home/

La poesia è ancora praticabile, E. Sanguineti

 

… oggi il mio stile è non avere stile

E. Sanguineti

 

la poesia è ancora praticabile, probabilmente: io me
la pratico, lo vedi,
in ogni caso, praticamente così:
con questa poesia molto quotidiana (e molto
da quotidiano, proprio): e questa poesia molto
giornaliera (e molto giornalistica,
anche, se vuoi) è più chiara, poi, di quell’articolo di
Fortini che chiacchiera
della chiarezza degli articoli dei giornali, se hai
visto il “Corriere” dell’11,
lunedì, e che ha per titolo, appunto, “perché è
difficile scrivere chiaro” (e che
dice persino, ahimè, che la chiarezza è come la
verginità e la gioventù): (e che
bisogna perderle, pare, per trovarle): (e che io dico,
guarda, che è molto meglio
perderle che trovarle, in fondo):
perché io sogno di sprofondarmi a testa prima,
ormai, dentro un assoluto anonimato (oggi che ho
perduto tutto, o quasi): (e
questo significa, credo, nel profondo, che io sogno
assolutamente di morire,
questa volta lo sai):
oggi il mio stile è non avere stile.

Edoardo Sanguineti
(1977)

Canto trentacinquesimo, Tonino Guerra

Roberto Ferri (1978, Taranto) , Perpetua

Allora si alzerà Adamo e a testa alta
andrà sotto quella Luce Grande
per dire che il miele che ci ha dato
era in cima a una spada.

T. Guerra

 

Acqua, fuoco e poi la cenere
e le ossa dentro la cenere,
l’aria trema attorno alla Terra.
Dove sono le foglie verdi, l’erba, i piselli
col dito delle donne che li staccava dalla buccia?
Dove sono le rose e la chitarra, i cani e i gatti,
i sassi e le siepi di confine,
le bocche che cantavano, i calendari, i fiumi,
e le tette piene di latte? Dove sono le favole
se le candele spente non fanno più lume?
Dov’è il Tempo con tutti i giorni della settimana,
le ore e i secondi che battono?
Il Sole gira e si muovono le ombre
della roba che sta ferma.
E io dove sono? Dov’è il tale?
Venezia che si è affogata
è un mucchio di ossa bianche sotto il mare.
Ma verrà il giorno che dalla porta del cielo
cadrà giù una voce dentro la polvere.
Comanderà che venga fuori l’uomo
che ha inventato tutto quanto:
la ruota, gli orologi, i numeri,
e le bandiere per le strade.
Allora si alzerà Adamo e a testa alta
andrà sotto quella Luce Grande
per dire che il miele che ci ha dato
era in cima a una spada.

Tonino Guerra, da Il miele (1981)

 

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Cantéda trentazóinch

 

Aqua, fugh e pu la zèndra
e agli òsi dróinta la zèndra,
l’aria la tréma datónda ma la Tèra.
Duv’èl al fòi vàirdi, l’érba, i bsaréll
Se dàid dal dòni ch’ù i stachéva da la bózza?
Duv’èl al rósi e la chitàra, i chèn e i gat,
i sas e al sivi di cunfóin,
al bòcchi ch’al cantéva, i calendèri, i fiómm
e al tètti pini d’lat? Duv’èl al fóli
s’u i è al candàili smórti c’li n fa lómm?
Duv’èl e’ Témp sa tótt i dè dla stmèna,
agli òuri e i sgond chi bat?
E Sòul e’ zóira e u s móv agli òmbri
dla ròba ch’ la sta férma.
E mè du sòi? Duv’èl e’ tèl?
Venezia ch’ la s’è afughéda
l’è un mócc ad òsi biènchi sòtta e’ mèr.
Mo e’ vén e’ dè che da la pórta de zil
e’ casca zò una vòusa dróinta la pòrbia.
La cmanda che vénga fura l’òm
che l’à inventè la ròba d’ógni sòrta:
la ròda, i arlòzz, i nòmar
e al bandìri par la strèda.
Alòura u s’èlza Adamo e a tèsta èlta
e’ va sòtta ch’la Luce Granda
par dòi che e’ mel ch’ u s’éva dè
l’èra in zóima a una spèda.

Tonino Guerra, da E’ Mel (1981)

 

 

 

Rotonda terra, Carlo Betocchi

Endre Penovác

 

Rotonda terra; scena che si ripete,
in te, del saluto serale: consuetudine
mia planetaria, con te e i tuoi tramonti:
trasalimento, di tegola in tegola,
del mio vivere che se ne va col tuo
trapassare, lume diurno, lento,
sul tetto davanti casa; e mio formarsi,
intanto, un petto come di colomba;
e metter piume amorose per la notte
che viene; ravvolgermi unitario
con essa: pigolìo interiore; perdita
dell’umano: divenir mio universale.

 

Carlo Betocchi, in Poesie del sabato (Mondadori, 1980)

 

[Foto: Endre Penovác]

La terra dei ricordi, Giovanna Rosadini

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Non lasciare deserta la terra dei ricordi
dentro quel buio fermentato di nostalgia
si accendono bagliori di compiutezza

G. Rosadini

 

Non lasciare deserta la terra dei ricordi
dentro quel buio fermentato di nostalgia
si accendono bagliori di compiutezza
come quando, nel perfetto silenzio dei monti,
la neve scricchiolava sotto i piedi
o in acqua, al largo di un intenso blu
estivo, nuotavi intorno alla barca con i tuoi,
o il giorno che lei è arrivata, nella stanza
della clinica colorata dal tramonto,
in quattro ci siamo sentiti completi.
Sei stata felice, e non lo sapevi

Giovanna Rosadini, inedito

Cartoline dal mio paese: due poesie rimaste a lungo inedite di Leonardo Sciascia

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1.

Il paese del sale, il mio paese
che frana – sale e nebbia –
dall’altipiano a una valle di crete;
così povero che basta un venditore
d’abiti smessi – ridono appesi alle corde
i colori delle vesti femminili –
a far festa, o la tenda bianca
del venditore di torrone.
Il sale sulla piaga, queste pietre
bianche che s’ammucchiano
lungo i binari – il viaggiatore
alza gli occhi dal giornale, chiede
il nome del paese – e poi in lunghi convogli e
scendono alle navi di Porto Empedocle;
il sale della terra – “e se il sale
diventa insipido
come gli si renderà il sapore?”
(E se diventa morte,
pianto di donne nere nelle strade,
fame negli occhi dei bambini?).

 
2.

Questo è il freddo che i vecchi
dicono s’infila dentro le corna del bue;
che svena il bronzo delle campane,
le fa opache nel suono come brocche di creta.
C’è la neve sui monti di Cammarata,
a salutare questa neve lontana
c’erano un tempo festose cantilene.
I bambini poveri si raccolgono silenziosi
sui gradini della scuola, aspettano
che la porta si apra: fitti e intirizziti
come passeri, addentano il pane nero,
mordono appena la sarda iridata
di sale e squame. Altri bambini
stanno un po’ in disparte, chiusi
nel bozzolo caldo delle sciarpe.

 

Leonardo Sciascia, Cartoline dal mio paese,  La Stampa del 18 dicembre 2009

 

[Queste poesie, scritte da Leonardo Sciascia nel 1952, sono state ritrovate da Francesco Izzo tra le Carte Pasolini, presso l’Archivio A. Bonsanti del Gabinetto Vieusseux di Firenze. E a darne notizia è stato il sito ufficiale degli Amici dello scrittore siciliano Leonardo Sciascia Web nell’ottobre del 2009 e pubblicate su La Stampa del 18 dicembre 2009.]

 

[Foto: Leonardo Sciascia (1921-1989) sugli scogli sul mare vicino a Palermo (Vittoriano Rastelli / Getty Images) ]

Battendo a macchina, Giorgio Caproni

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E se non vuoi tradita
la sua semplice gloria,
sii fine e popolare
come fu lei – sii ardita
e trepida, tutta storia
gentile, senza ambizione.

G. Caproni

 

Mia mano, fatti piuma:
fatti vela; e leggera
muovendoti sulla tastiera,
sii cauta. E bada, prima
di fermare la rima,
che stai scrivendo d’una
che fu viva e fu vera.

Tu sai che la mia preghiera
è schietta, e che l’errore
è pronto a stornare il cuore.
Sii arguta e attenta: pia.
Sii magra e sii poesia
se vuoi essere vita.
E se non vuoi tradita
la sua semplice gloria,
sii fine e popolare
come fu lei – sii ardita
e trepida, tutta storia
gentile, senza ambizione.

Allora, sul Voltone,
ventilata in un maggio
di barche, se paziente
chissà che, con la gente,
non prenda aìre e coraggio
anche tu, al suo passaggio.

Giorgio Caproni, da  Il seme del piangere” (1954 – 1958) in Meridiani Mondadori, Vol I, 2009

 

* Dalla nota dell’autore al libro: “Il Voltone è nomignolo popolare della vasta Piazza Carlo Alberto (ora Piazza della Repubblica), giustificato dal fatto che sotto di essa, come sotto una grande volta, è il canale navigabile che unisce il Fosso dei Navicelli con la Darsena del Cantiere Orlando. Il Cisternone è il serbatoio dell’acquedotto di Colognole, costruzione gialla di stile neo-classico sormontata da un grandioso nicchione. In Cors’Amedeo, presso il Parterre e il Cisternone, era la palazzina dove son nato. Via Palestro è (o era) una delle vie più popolari dove ho abitato fino al ’22”

** Il seme del piangere è un breve canzoniere per la madre, Anna Picchi, che rivive in questi versi  il tempo della giovinezza, quando il poeta ancora non era nato. Anche questo componimento, quindi, volutamente semplice, è dedicato alla sua memoria.